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TRASMUTAZIONE DELL’OPERA di Massimo Mussini

 

Proemio o dell’epilogo.                                                                                        

Nella più recente produzione di Luciano Bertoli s’avverte una cesura; è uno stacco breve, come d’attesa della successiva battuta e non una netta frattura che separi irrimediabilmente due tempi. E’ piuttosto un passaggio, sottolineato anche dal titolo d’una delle sue opere, 'Impalpabile penetrazione’, fra un luogo e l’altro d’un antico “Teatro della memoria” è il segno d’un legame più concettuale che fisico fra due momenti del suo operare artistico.

Se ‘Divano Quadro TV’ (1983) accoglie ancora in sé antichi sentori di surrealismo magrittiano, ma aggiornato nella sostituzione della finestra  schermo col meno metaforico schermo televisivo dalla luce azzurrina, allusiva macchina per produrre immagini da farci assorbire in una passività mentale e fisica totali; ‘Impalpabile Penetrazione’ (1983) con le sue forme puntute, quasi da struttura cristallina ingigantita ed incrostata al soffitto, ci avvia verso nuovi luoghi della conoscenza, verso nuove regioni della memoria: che di memoria pur sempre si tratta. ‘Divano Quadro TV’si lega ancora direttamente a quel mondo di macchine antropoidi caratteristiche di una passata stagione di Bertoli, la cui surrealtà appariva in qualche modo storicizzata nelle citazioni da Bosch, macchine in un certo senso più rassicuranti che inquietanti, in quanto dominabili dalla memoria e riconducibili quindi entro un ambito preciso di conoscenza. ‘Impalpabile Penetrazione’ nella sua ferma struttura di base trasformata improvvisamente dal pulsare interno delle luci, s’accorda più prossima coi lavori dei primi anni Ottanta imperniati sui rapporti simbolici di moto e colore, forma, come ad esempio ‘Rosso Moto Assoluto’ – ‘Nero Blu riposo (i981). Ma già  entrambi, in questi lavori s’avverte un procedere oltre le passate esperienze, e non per rinnegarle, bensì per rigenerarle entro un nuovo modo di operare nell’arte.

Lo scopo perseguito non è più soltanto di “raccontare” o di “raffigurare”, non è più l’immagine per quanto carica di senso simbolico e neppure il recupero di una memoria “storica” com’era ancora ‘Frammenti di un tempo rievocato’ oppure il ‘Teorema di Piero’ (1979); esso diviene ora la costruzione di un oggetto nuovo e complesso che oltrepassa l’esperienza quotidiana e contiene in sé una possibilità futura. La memoria dunque, da sedimento della storia e del mito, il recupero di una realtà già trascorsa ed esperita, riacquista il valore attivo che ad essa era assegnato nelle antiche mnemotecniche e diviene strumento di conoscenza e creazione.

Se l’opera degli anni precedenti richiedeva sempre l’uso degli strumenti e dei materiali consueti nella pratica artistica: matite e carte, punte e lastre di rame e morsure, pennelli e colori, tele e legni, plastiche, gesso, cristallo e ferro, ora Bertoli lavora preferibilmente materiali nuovi, taluni ancora desueti nelle botteghe degli artisti e s’inventa processi, sperimenta miscele, trasforma col fuoco, “scioglie e coagula” come un antico alchimista.

Anche in questo campo, tuttavia, egli non rompe nettamente col passato poiché alcuni dei materiali più nuovi hanno già una storia all’interno del suo lavoro: ad esempio i metacrilati estrusi in lastre trasparenti, utilizzati da qualche tempo unitamente alla selenite, una varietà del gesso sfaldabile in lamelle rigide e sottili che incollate su un supporto, erano considerate opere, (1982),  come equivalente e sostitutiva del colore per composizioni astratte organizzate sul mutare del minerale diversamente trattato.  Perfettamente trasparente, incolore se tenuto naturale, o smerigliato con graffi e graniture,  oppure reso bianco , opaline, opaco o calcinato con la fiamma. Già quest’ultimo processo, che implica anche una trasformazione chimica della materia –da solfato di calcio bidrato ad ossido di calcio – conduce direttamente verso l’attuale significato del suo lavoro.

Trasformare la materia talvolta in moto irreversibile, anziché plasmarla semplicemente per farne nascere l’opera, diviene la costante del suo operare recente; come la selenite, anche i metacrilati iniziano di conseguenza subire manipolazioni, ad esser sagomati, piegati, traforati, passando dal semplice rango di supporto a quello di materiale costituente l’oggetto. Del metacrilato egli usa perciò anche gli scarti – granuli e segature – che diluisce con solventi, amalgama, colle e polveri colorate che fa coagulare entro forme.

Oltre al colore tradizionalmente utilizzato nell’opera pittorica, il colore spalmato sulla superficie, che si legge riflettendo le radiazioni luminose, egli aggiunge una cromia interna che si rende manifesta soltanto per trasparenza sotto l’azione di lampade elettriche collocate entro l’oggetto e regolate elettronicamente, fanno pulsare ritmicamente, alzando e abbassando l’intensità contribuendo a una vera e propria trasformazione ciclica e  continua delle forme.

 

Lege et relege, il senso dell’opera.

‘Proemio (1984) è il primo lavoro in cui Bertoli fonde insieme le vecchie esperienze ed i nuovi indirizzi nel tentativo di combinare pittura, scultura ed architettura luce e suono diversi dai concetti tradizionali; aperti verso il futuro anziché  sul passato. Se la pittura, per usare la classica formulazione di Giorgio Vasari, è delineazione sul piano di una figura campita di colore, ‘Proemio’ va considerata certamente una pittura in quanto è superficie piana, su cui sono delineate forme geometriche colorate; se la scultura è forma nello spazio, quest’opera è anche oggetto stereometrico in quanto composta da un solido attraversato da segmenti tubolari raccordati da filamenti incolori, ed essa si fa contemporaneamente architettura nel suo disegno pentagonale allusivo a simbolici impianti planimetrici. Ma queste forme e questi colori, percepibili con l’illuminazione ambientale si trasformano radicalmente sotto l’azione delle luci interne che s’accendono, si spengono, mutano al ritmo appena percettibile suono monocorde dei reattori, ridisegnando continuamente i connotati dell’opera.

Il titolo non allude casualmente a un’ inizio che sottintende una continuazione: ad un ‘Proemio’ in cui s’accennano temi più oltre sviluppati, col quale si da avvio ad un’operazione artistica non più intensa come insieme staccato di realizzazioni, bensì come un concatenato susseguirsi di azioni. 

‘Gal Attico Blu’ (1985), un gigantesco cristallo, una forma pensata per riempire il soffitto di una stanza circolare, è contemporaneamente scultura e oggetto di un formgestalter, in quanto destinato ad assumere nella collocazione definitiva, la funzione di cielo luminoso, in questa sua ambivalenza dove si può cogliere la volontà di sviluppare il tema avviato nel ‘Proemio’; non più come tentativo di ricomporre un’unità progettuale, due diversi generi artistici, ma istituendo un rapporto fra l’oggetto d’uso filosofico, con un percorso che non segue la strada razionalistica segnata dalla Bauhaus, bensì un più libero e non codificato processo operativo. 

Il tema figurativo dell’oggetto appare chiaramente enunciato nel nome che evoca spazi siderei; allude alla funzione di soffitto / cielo blu, quasi una moderna replica degli sfondati quadra turistici barocchi. Ma la connotazione linguistica appare ben più densa di simbolismo se la consideriamo nella sua forma scritta anziché pronunciata.

‘Gal attico invece di ‘Galattico’, infatti separando decisamente la radice ‘gala’ (latte) da attico, che assume così il significato di parte alta, terminale di un edificio (e dunque per estensione, anche di (soffitto/cielo), vuole porre l’accento sull’antica interpretazione mitica della galassia; la ‘Via Lattea’, riconnotando in tal modo il titolo dell’opera da intendere ora come ‘cielo di latte blu’ anziché semplicemente come ‘cielo blu’. Come un soffitto lattiginoso, rivestito da traslucide concrezioni, l’oggetto ci appare infatti quando è illuminato di luce ambiente bianco lattiginoso, per mutare forma sotto l’azione della luce interna ed apparire quale planetario marezzato da pallide luminescenze.

Con ‘Diade Diacronico’ (1985) Bertoli affronta invece un tema diverso, quello della città intesa come una complessa macchina quasi dotata di una vita propria. Una città, come sottolinea il titolo, doppiamente mitica, perché rievocazione del passato e perché proiezione nel futuro. Della metropoli avvenirista, da cinema di fantascienza, essa ha infatti molte caratteristiche; dal suo essere costruita con esili trasparenti strutture verticali dagli audaci sbalzi, al suo essere incapsulata sotto una campana trasparente di forma piramidale, al pulsare multicolore delle luci che l’animano.

Ricca di una sedimentata memoria storica essa si rivela invece ad un altro sguardo: nel suo fondare su una base quadrata inscritta entro un pentagono, nella sua forma planimetrica che ripete duplicandola l’iconografia del palazzo di Cnosso; la mitica sede di Minosse e del labirinto. Doppia è l’immagine storica, la città mitica, doppia diventa la città costruita quando le luci interne s’accendono e l’immagine si moltiplica specchiandosi sulle pareti inclinate della piramide che la racchiude, non più semplice capsula protettiva, ma cielo/cupola che copre, come in una visione pre-tolemaica, il piatto luogo della terra.

La città è però anche un organismo vivente, come il mito che cresce su se stesso, e, continuamente rivitalizza la storia dell’uomo. Così, al ritmico pulsare della luce che s’alza e s’abbassa d’intensità corrisponde il suono del ventilatore collocato all’interno del basamento; il suono che ne deriva corrisponde al lento respiro di un gigante: il respiro della città assieme al Minotauro che nei recessi segreti del labirinto era rinchiuso. Al mito del labirinto ed al motivo del doppio riconduce direttamente un altro lavoro del medesimo anno, ‘Trappola per Minotauri’(1985), un oggetto costituito da due piramidi triangolari contrapposte e proporzionate secondo il modulo 1:2, fissate ad una base triangolare. Entro la piramide maggiore, fra il pulsare delle luci multicolori s’intravvede un piccolo Minotauro prigioniero fra un inestricabile sviluppo.

Una variazione sul tema della città stavolta coinvolgente direttamente l’individuo per lo svilupparsi entro la forma parallelepipeda in metacrilato di una piccola mano, si ha ‘Malù’ (1985), il cui titolo composto con le lettere iniziali dalle parole mano luce si ricollega direttamente all’attività di artista costruttore a cui Bertoli s’è indirizzato in questi ultimi anni, al suo fare paziente e l’abilità manuale;  la luce reale e metaforica, la luce elettrica, la luce dell’immaginazione.

Da ‘Diade Diacronico’ a ‘Trappola per Minotauri’ il discorso si sviluppa sul tema della città labirintica allusiva ad un percorso iniziatico, a cui non risulta estraneo il travaglio dell’operare concreto, simboleggiato dalla mano imprigionata nella forma di ‘Malù’, e che deve condurre verso una sfera superiore di conoscenza e d’azione come tutti i riti d’iniziazione. Tale meta sembra allusa da ‘ Città Alcoolica’ (1985), un avveniristico complesso urbano sotto teca trasparente di forma irregolare, luci colorate interne  associate alla luce naturale esterna, riproduce l’intero ciclo cronologico di un giorno, dal buio alla luce solare. La città è priva di uomini, apparentemente senza mito, una città proiettata nel futuro il cui attributo ‘alcolica’ suggerisce il raggiungimento di uno stato d’ebbrezza si sradica dalla coscienza e conduce, come nel mito di Dioniso, ad una forma sublimata di conoscenza, ma pure in uno stato della materia estremamente rarefatto e purificato. Anch’essa, dunque per quanto possa apparire, proiettata verso il futuro, origina da un suo mito come le antiche città storiche essa  s’iscrive con un proprio simbolico significato entro un luogo preciso di ”teatro della memoria”.

‘Lady Wood e Led’ (1985), muove entro altri spazi della memoria di Bertoli e sembra trovare radici nel mondo del racconto fiabesco e della correlata ironia folclorica, riportandoci direttamente alle fate dei racconti nordici che l’iconografia tramanda con i puntuti cappelli delle dame di corte,  gotiche.

Signora Wood e Diodo luminoso – suona la traduzione italiana – è il titolo che allude alle sorgenti luminose interne, ove Wood è sineddoche di “ lampada a raggi ultravioletti” con schermo di Wood e LED è sigla tecnica di Light emitting diode, diodo luminoso appunto; ma nello stesso tempo il titolo appare anche inconsciamente generato dall’ambivalenza della parola ‘Wood’ che oltre a designare lo scienziato scopritore della luce che porta il suo nome, significa anche legno e per estensione, può valere anche come albero con diretta allusione alla forma particolare assunta dall’oggetto costruito da Bertoli. Questo infatti inizialmente progettato in forme maggiormente antropomorfe, secondo il modello di una fata medievale, è stato invece concluso come un geometrico albero assai simile alla pianta per eccellenza della cultura contemporanea, l’abete natalizio che sappiamo legato ad arcaici rituali nordici di vita e rigenerazione.

L’oggetto, quando le luci interne sono spente, ha il caratteristico colore lattiginoso assunto dalle lamelle di selenite imbiancate col fuoco che ne rivestono le superfici interne; Quando illuminato acquista la particolare colorazione azzurro violetta, prodotta dalla luce di Wood, con riflessi multicolori fluorescenti mentre la punta conica pulsa alla sommità di un’autonoma luce rossa fornita dal LED. ‘Lady Wood e LED’ diviene dunque traducibile anche come ‘Signora legno e Diodo Luminoso’ cioè ‘Fata Albero e Luce’; consentendoci di meglio comprendere le ragioni del singolare passaggio dall’iniziale progetto di simulacro femminile/fata all’albero stilizzato, e di afferrare finalmente il senso profondo dell’opera , la quale più direttamente di altre, ci rivela come la “memoria” di Bertoli s’estenda anche oltre i confini della scienza e conoscenza ed attinga a quella parte segreta del “Theatrum memoriae” che è l’inconscio collettivo. E’ qui infatti che troviamo una diretta associazione fra albero e figura femminile nell’interpretazione mitica della pianta come parte femminile dell’uomo – vale a dire come “anima” – E’ qui che l’albero si collega strettamente alla creatività materna, allusa nella mitologia delle ninfe boscherecce e soprattutto dalla Grande Dea madre delle cose, ed è ancora qui che l’albero assume il significato simbolico di rappresentazione dell’opus alchemico inteso come processo di trasformazione vitale e di conciliazione degli opposti.

 

Labora et invenies, il lavoro dell’opera.

Fra gli artisti contemporanei che trovano i motivi ispiratori nella mitologia e particolarmente nella densa stratificazione dei temi alchemici Bertoli occupa un posto tutto suo. Cosciente che alchimia come del resto l’antica astrologia, ha oggi perduto ogni valore conoscitivo ed ogni concreto rapporto col mondo e che pertanto non può più essere intesa quale strumento di appropriazione e trasformazione della realtà, egli ne accoglie la funzione memorativa e l’utilizza come mezzo di riflessione e come stimolo psicologico sulla via dell’invenzione fantastica. Quest’aspetto, che forma l’oggetto delle esercitazioni degli artisti contemporanei e si traduce solitamente in un racconto per immagini di antiche credenze dell’uomo, pur costituendo un prezioso recupero della funzione d’integrazione affidato alla storia anche mitica come “memoria”, vale a dire come presa di coscienza del proprio appartenere al mondo, non riesce ed essere totalizzante nell’esperienza di Bertoli. A lui non interessa, infatti, tanto l’atto del rivisitare con occhio moderno un mondo arcaico, collocandosi tra la nostalgia di un età dell’oro perduta e la convinzione che la materia già plasmata, possa riacquistare con un ciclico percorso la funzione di materia grezza da riplasmare nel crogiolo dell’immaginazione. Il suo uso dell’alchimia è più legato all’aspetto operativo che alla rievocazione di contenuti mitico- simbolici, i quali affiorano e si compongono all’interno dell’opera in modo  sovente inconscio, poiché l’energia cosciente è tutta proiettata sul fare.

Poiché l’opera in questa fase della sua attività artistica lo interessa principalmente in quanto manipolazione e trasformazione di materia; ne deriva necessariamente un ritorno alla manualità operativa, al fare artigianale, che nella tecnica e la  progettazione procedono integrandosi vicenda l’una nell’altra e stanno in continuo  dialettico confronto. Ne consegue anche la necessità di affiancare nuovi e più moderni processi alle tradizionali tecniche artistiche, non per rinnegarle bensì per riaffermare l’intrinseco valore significante. L’opera non si costituisce infatti se non attraverso la tecnica;  che consente di concretizzare senza il limite della sua annunciazione concettuale. Per questa convinzione, abbandonata la superficie dipinta la bidimensionalità figurativa che come schermo proiettivo, può mostrare soltanto per allegorie la realtà fenomenica o il concetto, preferendo la realtà dei contenuti progettuali, nella concreta stereometria dell’oggetto e il suo evolversi temporale.

L’operazione artistica a cui Bertoli s’è accinto dal 1984 – con alcuni tentativi d’assaggio nell’anno precedente, se visto – è così venuta a coincidere di fatto con le fasi del processo alchimistico in quanto, come s’è in precedenza rilevato, una triturazione e rottura della materia, ma di una materia tecnologica già derivata da un moderno processo “alchemico”, come il metacrilato estruso; diluito mediante solventi chimici, coagulazione attraverso la loro volatilizzazione e il rassodarsi. O di calcinazioni con l’uso della fiamma che imbianca le trasparenze di selenite e ne muta la composizione naturale.

Tale processo operativo non scaturisce però dalla scelta di ripercorrere coscientemente le singole fasi del processo alchemico; ma piuttosto naturale conseguenza delle metodologie del lavoro adottato dall’artista, che ne costruisce l’opera procedendo secondo una prefigurata ed organica linea concettuale. Muovendo da un’idea progettuale di base, che insegue piuttosto il sottile e tortuoso filo d’Arianna della sperimentazione e dei suggerimenti che ne provengono, ricalcando con  coscienza quella massima che nel ‘Mutus Liber’ riassume l’intero processo alchemico: “lege,lege,lege,rilege labora et invenies” (prova,prova, prova,riprova affaticati e finalmente troverai).

Da questo procedere empirico è derivata l’adozione della selenite come materiale artistico, individuando inedie possibilità d’uso linguistico nei caratteri esteriori del minerale, nella sua lucentezza e nella sua trasparenza, nella facilità di ridurlo a scaglie, di sagomarlo, granirlo, imbiancarlo col fuoco. A questa iniziale utilizzazione pratica s’è in seguito aggiunta la coscienza di un valore simbolico del minerale che Bertoli ha avvertito affiorare dalla parola selenite nel rievocare il nome greco della Luna (Selene), un valore che trova conferma nelle antiche credenze intorno a questo minerale chiamato anche come ci ricorda Ulisse Aldrovandi “ specularem lapidem", “ glaciem Mariae “ ed usato oltre che come sostitutivo del vetro anche come amuleto propiziatorio della fecondità.

Come col fuoco opacizza, imbianca la trasparente selenite imitando un preciso momento dell’’opus’, così al fuoco egli affida il compito di compiere la trasmutazione della sua opera costituita di morta materia calcinata triturata spezzata. Materia “al nero" in quanto opaca ed incapace di mostrare l’interno dell’oggetto; ma  stravolta in un fuoco diverso; non più con la libera fiamma del becco di Bunsen con cui calcina la selenite bensì, con  un fuoco più moderno e sconosciuto all’antica alchimia, un fuoco immateriale: La corrente elettrica. Il suo è però un uso ben lontano da quello fattone da ‘Don Flavin’, da ‘Bruce Nauman’ o da Mario Merz, illuminando tubi al neon, avevano la funzione di materiale da scrittura per tracciare fisicamente il segno – lettere, numeri, o, frammenti di forme: un segno pur sempre leggibile anche quando il tubo era spento e dunque in parte indipendente, nella sua esistenza d’azione della corrente elettrica. Esso è ben lontano anche dalle esperienze di Gilberto Zorio, che Bertoli ben conosce ed il cui uso di resistenze elettriche rese incandescenti dal passaggio della corrente aveva recuperato in un opera (Omaggio all’Inventore).

La corrente elettrica in questi ultimi lavori si trasforma invece in energia fisica, in movimento e rumore dei ventilatori, nello scatto dei ruttori che accendono o spengono le lampade. La luce elettrica è ora considerata dall’artista non tanto come oggetto luminoso, come cosa contemporaneamente percepibile in quanto segno in quanto capace di delineare un segno, essa è assunta direttamente nel suo valore di fenomeno fisico privo di ‘forma autonoma’, ma rivelatore di ‘forma - colore. Ne deriva la necessità di occultare le sorgenti luminose – le lampade – utilizzandone linguisticamente soltanto gli effetti  in modo che l’oggetto illuminato dall’interno per trasparenza, possa rivelarci colori e forme altrimenti non percepibili.

Come la luce è rivelatrice del colore, essa è anche produttrice del calore ed in termini di colore/calore –ossia di fuoco – essa trova una sua funzione precisa entro il processo formativo dell’opera di Bertoli. Come il fuoco nell’opus alchemico trasforma la materia facendola divenire altro, così la luce interna modifica profondamente l’opera, dandocene una diversa conoscibilità, mutandola da opaco, pesante corporeo oggetto, percepibile quale solido geometrico, in aerea forma indefinita, in forma “volatile” nella sua trasparenza, come purificata dalle scorie della sua fisicità.

Oltre alla luce prodotta dalle lampade a incandescenza vi è un’altra luce nell’opera dell’artista, di cui si deve tenere conto, perché del tutto inconsueta e maggiormente carica di senso simbolico, la luce di Wood che s’è già avuto modo di menzionare.

Una luce che come la selenite egli ha adottato dapprima per approssimazioni sperimentali, e in seguito adottandola in modo sistematico e linguistico.

La luce ultravioletta è detta anche luce “nera” perche le sue radiazioni sono invisibili all’occhio e soltanto l’interposizione di uno schermo (come il vetro di Wood) la rende visibile. Se la sua adozione è probabilmente stata suggerita inizialmente dai noti effetti che essa produce sui pigmenti rendendoli più o meno fluorescenti, la sua elezione a luce privilegiata cioè a strumento linguistico simbolico, nell’opera ha trovato singolare coincidenza di valori con l’alchemico “sole nero” il sole in eclissi privo di momentanea luce visibile. Il sole è “nero” quando si trova in congiunzione con la luna, dunque nel momento in cui nel processo alchemico gli opposti – maschile e femminile / zolfo e mercurio / fuoco ed acqua – congiungendosi danno l’avvio entro l’alambicco posto sul fuoco, al processo di trasformazione che deve condurre alla meta finale attraverso una serie complessa di passaggi, fra cui la manifestazione della ‘Cauda Pavonis’ (la coda di pavone) ove l’unione di tutti i colori simboleggiando la totalità, segna il sopravvenire della fase terminale dell’opus.

L’accendersi della “luce nera” entro l’oggetto opaco da appunto avvio nell’opera la sua trasformazione; ne muta le possibilità di percezione della forma, s’è detto, ma la ravviva anche di una fluorescenza gamma di colori precedentemente invisibili.

La “coda di pavone” che la luce fa apparire filtrando fra le scaglie di selenite annuncia così che grezza materia è stata vinta dall’artificio dell’uomo.

La coincidenza fra il lavoro di Bertoli ed il processo alchemico non può più apparire casuale, ormai e la riconosciuta analogia che consente di meglio cogliere il suo valore simbolico e di altri elementi da lui utilizzati, finora rimasti in parte celati.

Così il pentagono usato in un gruppo di opere non appare più semplice modulo geometrico formale, ma è da assumere nel suo antico valore di “pentagramma” e di emblema del dodecaedro, la quinta essentia simbolo di totalità che circonda i quattro elementi della sfera – terra acqua aria fuoco - . Così è la “Diade” o doppio segno del ‘Rebis’. L’essere ermafrodito nel quale le opposte nature maschile e femminile coincidono.

Anche ‘Gal Attico Blu’ rivela ora il suo significato profondo e lascia scorgere nel gioco verbale del titolo, un non casuale richiamo al ‘latte blu’, simbolo femminile e dunque della luna – la selenite calcinata – che combinandosi col sole – la luce – da avvio alla trasformazione della materia rivelata dal colore violetto. E’ proprio tale colore prodotto dalla luce ultravioletta della lampada di Wood, che nell’opera dell’artista modifica profondamente il senso dell’oggetto, smaterializzandolo.

 

Epilogo come proemio

Dai primi lavori, come ‘Proemio’ e soprattutto ‘Diade Diacronico’ ‘Trappola per Minotauri’,  ‘Malù’, in cui il classico mito del Minotauro e del labirinto danno l’avvio all’azione immaginativa, Bertoli è passato da  ‘Lady Wood e LED’ a miti meno storicizzati, a motivi più profondamente calati nell’inconscio ed alla cui rivitalizzazione dell’opera creativa s’è dedicato. Ma anche il mito antico, il labirinto ed il Minotauro diventavano necessarie premesse al lavoro successivo, maturato del resto nel breve volger di una stagione.

Dietro all’antico mito egeo, era infatti celato il problema di accertare il proprio ruolo di produttore d’immagini nella società odierna, di sciogliere un percorso labirintico com’è appunto la creatività, che richiede una dedalea capacità di progettare e fare .

Dedalo, il mitico costruttore, l’abile di mano, l’agile di mente, è insomma sotteso a tutta la scelta operativa dell’artista nella quale immaginazione e lavoro inteso come energia formante, vengono ad incontrarsi. Un procedere già individuato alla base del fare di Duchamp e che porta a far coincidere il lavoro artistico col processo d’individuazione, il quale nel condurre allo sviluppo della personalità fa percorrere all’inconscio vie paragonabili con l’antica ricerca alchemica.

Alla meta, alla fine di una fase di ricerca, tesa al raggiungimento di un nuovo linguaggio espressivo, Bertoli sembra alludere con ‘Nascita di Hiberno’ (1985 ’86), l’allegoria di una propria iniziatica rinascita, una ritrovata identità simboleggiata dall’homunculus che l’opus fa nascere all’interno del vaso ermetico.

Entro un tronco di piramide posato sul terreno; traslucido blocco di ghiaccio nell’effetto prodotto dalle bianche scaglie di selenite – la Glacies Mariae degli antichi alchimisti – è contenuta una sagoma umana congelata, cioè, in termini alchemici condotta in stato di materia coagulata ed in attesa ormai di giungere al processo finale. Con l’accendersi delle luci interne, la formazione dell’essere nel vaso ermetico che si manifesta, mentre alle sue spalle e ad una qualche distanza s’illumina sulla parete una ‘Cauda Pavonis’ sottolineando l’avvento della fase conclusiva dell’opus.

‘Nascita d’Hiberno’ sembra indicare anche un’evoluzione nel lavoro dell’artista in direzione dell’abbandono dell’unità formale fino ad ora perseguita, poiché l’oggetto si scinde in più parti ed assume quasi i connotati di un’installazione. Ad una considerazione più attenta, però essa mostra di non volersi affatto configurare quale semplice occupazione di spazio o d’ambiente, ma piuttosto come racconto, come teatro nel senso originario di messa in scena mitica, di ripetizione rituale propiziatoria.

La ricerca dell’unità, della conciliazione degli opposti che caratterizzava i primi lavori non è dunque stata abbandonata, anzi si è spinta fino a tentare di unificare le nozioni di spazio - tempo, di rappresentazione figurale e di narrazione scenica attraverso il ricorso al mito, alla sua rievocazione rituale. Nelle culture arcaiche il mito ha un suo tempo che è quello dell’origine “antica” ma cronologicamente indefinita, però contemporaneamente senza tempo, in quanto racconto rimasto  attuale, e, la sua rievocazione come rito religioso intende riprodurne gli effetti mistico magici nel presente.

Mettere in scena il mito equivale riprodurne una coincidenza perfetta fra passato e presente. Il mito rievocato in ‘Nascita d’Hiberno’ non ha un referente preciso, come nel mito del Minotauro, ma intreccia in sé quei sensi complessi riproponendo da un lato ancora una volta il processo alchemico come paradigma della creazione. Dall’altro recupera contenuti reali a credenze ancestrali sulla rinascita della natura quiescente dopo la parentesi invernale.

‘Hiberno’, che larvale sta rinchiuso nel ghiaccio può infatti essere inteso come simbolo della vita sospesa nel gelo invernale, un epoca in cui gli antichi riti agrari di fertilità e fecondità, evocava le anime degli antenati, simbolo di morte e di rinascita, con le feste del sosti zio d’inverno, si propiziavano la ripresa della potenza calorica del sole e la rinascita della vegetazione.

L’ironia di Bertoli si manifesta non soltanto nei titoli delle opere, sovente ‘calembour’ veri e propri scaturiti da consce associazioni, ma anche nell’atteggiamento sempre un po’ ludico col quale affronta l’attività creativa, elabora i contenuti contaminandoli con elementi  estranei, per un atteggiamento non partecipativo col quale sia il mito classico che alchemico vengono assunti.

Un fare che lo mantiene sul piano dell’attualità e che lo distanzia, nel contempo dall’antica concezione della creazione come angoscia esistenziale, simboleggiata dalla ‘nigredo’ o corruzione della materia e dallo spirito melanconico; sostituendo la melanconia con l’ironia,  dopotutto rovesciare l’atteggiamento è corrosivo anche nei confronti del proprio lavoro, senza modificare in  sostanza il processo operativo ma  poiché l’ironia è anch’essa corrosiva e disgregatrice che conduce per successivi riconoscimenti ad una realistica e ponderata conoscenza. In tal modo l’illuminazione ottenuta dalla conclusione ludica dell’opera è soltanto il ‘Proemio’ di un successivo percorso.

                                                                                                          

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